Diario Jubuquito 23 gennaio 2014
Guatemala, 23 gennaio ’14
Al mattino presto siamo partiti con sr Teresa e Carmela da Los Amates, dipartimento di Izabal (Guatemala), verso Jubuquito, un villaggio in montagna dove stiamo ampliando l’unica scuola e sostenendone l’attività. L’unico mezzo che può salire a Jubuquito è un pickup 4×4, peraltro con notevoli difficoltà. Infatti per percorrere circa 30 km ci sono volute tre ore, procedendo quasi a passo d’uomo su uno sterrato malmesso e invaso dal fango; la pioggia è insistente, la montagna frana e bisogna guadare i numerosi corsi d’acqua ingrossati utilizzando i resti di ponti crollati. Spesso si rasenta con le ruote il ciglio dei dirupi. Il paesaggio è primordiale, mi viene in mente il giorno della Creazione. La natura è incontaminata, predominante su tutto e tutti, maestosa, imprevedibile e incontrollabile. Lungo la strada vediamo uomini e ragazzi, anche bambini, lavorare su pareti quasi verticali per piantare mais. Come facciano è un mistero.
Per entrare nel villaggio ed evitare laghi di fango insormontabili, bisogna attraversare il fiume in due punti, dove l’acqua è profonda circa sessanta centimetri. Il villaggio è immerso nella nebbia e nella pioggia, ed è pervaso dall’odore acre del fumo che esce dalla cucine di assi di legno dove si accende ogni giorno il fuoco con la legna. Uomini silenziosi stanno immobili sotto la pioggia in silenzio, con i lori cappelli un tempo bianchi e ora sporchi di terra e fatica, e i machete malandati, da soli per lo più, o in piccoli gruppi di due o tre. I bambini e qualche donna stanno vicino alla chiesa di S. Antonio da Padova, un unico locale semplicissimo, con qualche sedia e poche tavole di legno per banchi, le finestre rotte e il Santissimo in una scatola di legno con due piccoli fazzoletti di velo bianco sul davanti. La chiesa è stata costruita mattone dopo mattone, portati a spalla da tutti, bambini compresi, dal vicino Honduras, la cui frontiera geografica è a circa mezz’ora di cammino; un pò più facile che trasportare il materiale necessario lungo i trenta km dello sterrato, a dorso dei cavalli del luogo, piccoli, magri e sofferenti anche loro. Il trasporto dovette essere effettuato di notte perché altrimenti la polizia honduregna li avrebbe arrestati per contrabbando…
Oggi la chiesa viene pulita dalle donne del villaggio, a turno. Bisognerebbe mettere i vetri alle finestre e fare delle riparazioni. Chissà che non riusciamo a dargli una mano.
Ed ecco la scuola. Il comitato responsabile ci aspetta al cancello di ingresso (o meglio, quel che ne resta); sono contadini, come tutti, dall’aspetto particolarmente provato, vestiti letteralmente di stracci. Il loro rappresentante è messo un pò meglio, e ci mostra le due aule originarie e la grande aula nuova che abbiamo realizzato e che è intitolata a Mons. Gerardi, un martire che ancora oggi, a quasi sedici anni dall’orribile omicidio, viene ricordato con rispetto e gratitudine ma con circospezione ed un certo timore.
Le aule preesistenti sono molto malmesse, e la nuova non ha alcuna suppellettile, né banchi, né sedie, né lavagna. Nulla. Ci chiedono di aiutarli ad arredare l’aula, destinata ai più piccoli, con l’indispensabile, e se possibile a riparare le vecchie aule. Lo chiede il rappresentante del gruppo e lo fa sommessamente, con un filo di voce, credo per il timore che gli diciamo subito di no, che non è possibile. E invece gli rispondiamo che faremo il possibile, che non promettiamo nulla di certo ma faremo il possibile. Piove, siamo al riparo di una delle lamiere che fanno da tetto ma ci bagniamo lo stesso. Ci salutiamo in silenzio, una stretta di mano e andiamo via.
Una famiglia ci ha invitato a mangiare con loro e ci offre alloggio per la notte. Per raggiungere la loro casa camminiamo nel fango fino a sotto le ginocchia, per fortuna abbiamo messi messo degli stivali di gomma che ci avevano consigliato di prendere prima di partire da Los Amates. La casa è una delle migliori, ha tre stanze in mattoni, senza intonaco, e il pavimento di cemento. C’è persino un bagno, invece del solito sgabuzzino di assi legno e buco nel terreno. La cucina è però come tutte le altre, assi di legno, terra per pavimento e tetto in lamiera. Galline, gatti e un paio di cani circolano liberamente, a stretto contatto con i bambini e con le attività della cucina. Un colibrì verde e giallo vola rapido da un fiore all’altro di un ibiscus rosso.
A Jubuquito non c’è corrente elettrica, e appena buio si accende qualche candela. La pioggia incalza, con un rumore assordante sulle lamiere. Fa buio prima del solito, e le donne preparano le tortillas a lume di candela, preparando l’impasto di mais e battendolo fra le mani per ottenere piccoli dischi da cuocere sulla piastra di metallo rovente per il fuoco a legna. Gli uomini, padre e figli, sono seduti ad aspettare come al solito nella sera, anche se oggi a causa della pioggia non hanno lavorato nei campi dall’alba al tramonto. Da un lato dello spazio esterno ci sono in contenitori per il mais e per i fagioli, il pasto quotidiano, sempre, dalla nascita e per tutta la vita. C’è silenzio, e gli unici suoni sono quelli della pioggia, delle mani delle donne e delle voci dei bambini.
Gli raccontiamo di Shalom, una bambina etiope malata di leucemia che la nostra associazione ha portato a Bari e che adesso è in un reparto di oncoematologia pediatrica, in condizioni sono molto gravi. Qualcuno propone di pregare per lei. Alla luce della candela, che il vento prova a spegnere senza riuscirci, e al suono della pioggia, tutti intorno al tavolo, recitiamo il rosario. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e il piccolo Jorge, tre anni, già dorme sulla sedia. La serenità e la pace di questo momento sono ineffabili. Non esiste più nulla, solo amore per una bambina che nessuno conosce e fiducia in Lei, la madre di Dio.
Non c’è luce, ma a qualche centinaio di metri, sulla cima della collina, c’è un ripetitore per telefoni cellulari, che in effetti funzionano. E’ incredibile, nelle case non c’è corrente elettrica, tutto si fa faticosamente a mano, dal lavoro nei campi alle cose della vita di ogni giorno, la scuola è insieme di quattro pareti coperte da lamiera senza arredi né bagni, le donne partoriscono in casa, da sole e spesso al buio, talora morendo, l’acqua va riscaldata sul fuoco ma i cellulari funzionano. Hanno portato il ripetitore con gli elicotteri, cosa altrimenti impossibile. Un servizio che renda meno dura la vita di tutti è meno remunerativa del mercato della telefonia, e quindi si rimanda la luce a chissà quando.
Ecco, siamo qui perché non ci viene nessuno, perché questa gente è dimenticata, perché gli danno cellulari da comprare invece che luce e scuola, perché sono uomini, donne e bambini che ci guardano in silenzio e ci offrono fagioli e tortillas, e ci insegnano cos’è la dignità e che cosa è la fede.
La ricchezza spirituale offusca la povertà materiale.
“Ecco, siamo qui perché non ci viene nessuno, perché questa gente è dimenticata, perché gli danno cellulari da comprare invece che luce e scuola, perché sono uomini, donne e bambini che ci guardano in silenzio e ci offrono fagioli e tortillas, e ci insegnano cos’è la dignità e che cosa è la fede.”
Cari amici, questo commento rende bene il senso dell’operare di una piccola Onlus come la nostra. Non siamo una ONG, non una organizzazione forte che può cambiare il mondo: ma siamo uno dei (per fortuna non pochi) punti di appoggio offerti a QUALCUNO delle persone che soffrono.
Le persone da aiutare non le scegliamo, i bisogni ci cercano: e nei limiti delle nostre forze e capacità, rispondiamo. Cercando di fare sempre di più, semore meglio, con il sostegno di un insieme di amici sempre più vasto.
Buona continuazione del viaggio !
è vero, è proprio così..i bisogni degli ultimi ci cercano, e noi possiamo scegliere se esserci o no; se dire eccomi, faccio quello che posso, oppure non mi riguarda. I bisogni ci cercano : a noi la risposta.